Milano è sinonimo di svariate realtà, dalla moda alla cultura, passando per il risotto con l’ossobuco, ma più di qualunque altra metropoli: è l’emblema della fretta. Quante volte vi è capitato di sentire un amico residente fuori dalla città meneghina, lamentarsi e dirvi: “Ma perché correte tutti?!”. A me è capitato un sacco di volte e sono giunta alla conclusione che l’unica risposta plausibile fosse “Un po perché sono sempre in ritardo e un po perché corrono gli altri!”. Poi riflettendoci meglio, mi sono accorta che in ritardo sulla tabella di marcia non lo ero quasi mai, ma semplicemente per inerzia sentivo una voce da dentro che mi diceva “Se perdi questa metro, ti tocca aspettare un minuto e mezzo”, e subentrando quindi il panico paura, scattavo tipo Marcell Jacobs alle Olimpiadi.
Alle volte diamo calma e tranquillità talmente per scontate, che ci accorgiamo della loro mancanza solo quando non le abbiamo più a portata di tempo. Un po’ come quando hai l’amore della tua vita tra le mani, ma preferisci la baldoria al resto, così lo molli e passi il tempo restante a piangerti addosso, nella speranza che la provvidenza tamponi in qualche modo la tua scelta discutibile.
Nonostante gli standard fulminei della città Ambrosiana, il mondo ha imparato ad inserire la calma in svariati modi di dire, che fosse un “Oggi calma piatta” o “Ricordati che la calma è la virtù dei forti”. Ma sarà proprio vero che necessitiamo di tutta questa calma per vivere la quotidianità? Forse si, forse no, ma credo comunque che il consiglio di Jovanotti nel fare “Un respiro profondo per non impazzire”, possa risultare la giusta via di mezzo alle due. Perché in fin dei conti la calma è una condizione interiore, per la quale la ricetta di base prevede: una mente libera da pallidi timori, una generosa dose di armonia colorata, con l’aggiunta di una manciata di bonsai rigogliosi, cascatelle zen e bacchettine d’incenso accese qua e là. Tempo fa un saggio mi ha detto che per mantenere la calma si dovrebbe contare almeno fino a dieci, eppure quando sono arrabbiata e tento di attuare questa miracolosa procedura, finisco con il ricordarmi in quei dieci secondi ulteriori motivi per i quali essere in collera, peggiorando in maniera irrecuperabile la situazione (forse non era così saggio come credevo).
Ognuno di noi pensando al concetto di calma, vedrà profilarsi un’idea ben precisa e soggettiva nella propria mente. Io, per esempio, immagino il mare: sento il rumore dell’acqua salata che impatta con la riva, quella luce particolare che si presenta solo al crepuscolo, mentre il profumo di quel momento immerso nella tranquillità riempie i polmoni. Ho sempre associato la mia idea di calma a qualcosa di naturale che fosse una distesa d’acqua salata o un giardino fuori dal tempo, ma c’è chi trova la propria pace anche nel bel mezzo di una strada affollata o tra le urla di bambini in un parco. È un’idea che emerge dal petto, in funzione di ricordi, personalità, del lavoro e di ciò che ci fa stare realmente bene. Che poi tendiamo ad associarla ad un luogo talvolta fisico, quando all’atto pratico risulta semplicemente quale condizione interiore, di cui alle volte vorremmo avere più padronanza, per sfoderarla in situazioni
in cui fatichiamo ad avere il controllo su ciò che ci suggerisce la pancia. Perché se ci pensate la rabbia monta dal nostro stomaco, mentre la calma è prodotta dalla mente e diffusa a tutti gli organi dal cuore.
Nell’articolo precedente abbiamo chiacchierato riguardo la rabbia, oggi vediamo la calma come scelta di vita quotidiana, in coloro che trovano nel training autogeno il loro mantra spirituale nella gestione di giornate no.
“La quiete dopo la tempesta” – GIACOMO LEOPARDI

“Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
Con l’opra in man, cantando,
Fassi in su l’uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua Della novella piova;
E l’erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.”
Ci concediamo solo l’inizio di questo capolavoro della letteratura italiana, che insieme a “Il sabato del villaggio”, costituisce un dittico iconico composto da Giacomo Leopardi nel 1829. In questa prima strofa, il poeta tratta la tematica della calma piatta sopraggiunta solo al tramontare della tempesta, una quiete raccontata in relazione ad un paesaggio bucolico, in cui la natura umana e quella animale si riappropriano delle consuete occupazioni. Qui la decadenza e l’ansia del tempo vengono messe da parte, per lasciare spazio all’illusione di una quiete eterna, già dissoltasi nelle strofe successive.
Proprio attraverso questa visione dialettica di caos e stasi, Leopardi espone la Teoria del piacere secondo cui l’uomo ha un’innata tendenza a ricercare la felicità (concetto assimilabile al piacere), e terminante solo con il sopraggiungere della morte. Esso è qualcosa di infinito che si oppone all’inevitabile finitezza dell’uomo, e che per questo non potrà mai essere raggiunto. Così come per il godimento e il dolore, anche la calma dopo la tempesta risulta solo temporanea ed effimera, in un mondo in cui l’idillio della tranquillità è meno durevole di un battito di ciglia.
“Tu sei come una terra” – CESARE PAVESE

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge. Cose secche e rimorte t’ingombrano e vanno nel vento. Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
Probabilmente avrete pensato che volessi vincere facile, perché sfoderare Cesare nazionale è sinonimo di trionfo a mani basse.
Piemontese, annata 1908, Cesare Pavese è uno dei massimi esponenti della letteratura italiana del 900 (un pezzo da novanta per intenderci). La sua produzione fu continuamente soggetta ad oscillazioni, che spaziavano tra un’immancabile solitudine interiore e una continua ricerca di legami con il prossimo. Quando parlo del “prossimo” mi riferisco soprattutto al genere femminile con il quale si relazionò, ma con scarsi risultati, perché a detta sua “Le donne erano stupide e smorfiose: l’infatuazione degli uomini le rendeva necessarie; bastava mettersi d’accordo e non cercarle più” (come direbbe Christian De Sica: “Delicatissimo”). Il dualismo in costante opposizione era quello di una donna inarrivabile e distante da un lato, e di una figura legata all’ambiente rurale dall’altro, una doppia dimensione che toccava la natura stessa del poeta sdoppiato tra eccesso d’amore e depressione.
La poesia proposta racconta di una donna– terra, dove il confronto con l’elemento naturale costante, gli permette di compararla ad un luogo sconosciuto nel nome, ad un frutto cresciuto tra i rami, come presenza toccata da un vento che raccoglie ciò che ormai ha abbandonato la vita. La campagna d’infanzia, dei ricordi, è un luogo sicuro per l’autore, in cui ritrova un senso di pace e serenità ancestrale, capace di trasmettere una profonda calma, racchiusa nel verso finale: “Tu tremi nell’estate”. Il tremolio è quel genere di moto caratteristico di chi è contraddistinto da mancanza di peso o da leggerezza di spirito, come una foglia o l’animo di una donna. E questo movimento è causato proprio dal vento, il quale senza violenza, lascia la foglia attaccata al ramo pur affidandola agli umori delle correnti. Tremare nell’estate non è tanto un’azione, quanto un sentimento fuori dal tempo, è una rassegnazione finalmente calma di chi accetta gli esiti di futuri domani, perché consapevole che la vita non è più in grado di regalargli la tranquillità che vorrebbe. La poesia uscì alle stampe nel 1945, e cinque anni dopo il poeta si suicidò.
Tratto da “La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore” CHANDRA LIVIA CANDIANI
Qualche volta io
non ci sono e sono
tutta l’aria, sono
pulviscolo atmosferico
e vibro d’altri
di loro gesti e fiati.
Qualche volta io
sono lombrico e patata
sto a cuccia sottoterra
e germino e faccio
pausa, è come perdere
le foglie per stare
con la vita principale,
allora mi raccolgono
fanno collezione di me
gli oggetti a primavera.
Delicata e rivoluzionaria, Chandra Livia Candiani, poetessa nata a Milano nel 1952, racconta sé stessa in termini naturali, riconoscendosi in quello stesso vento che raccoglie il suo spirito di adulta – bambina.
Ebbe un’infanzia dolorosa, nella quale il termine “pazzia” viaggiava, in senso clinico, di pari passo con il vocabolo “famiglia”. Questa ferita interiore, per quanto costante, si attenuò nel tempo attraverso un avvicinamento al buddhismo e alla meditazione, con i quali raggiunse la guarigione della mente e la calma nello spirito.
Chandra in questi versi, lascia emergere un senso di quiete riposante, sentimento di distensione e sussurro, senza carichi sulle spalle, riscoprendo sé stessa dentro aria, pulviscolo, patate e lombrichi. E come un albero che abbandonate le foglie si scopre nudo, ma in contatto con la sua anima dolce e legnosa, così anche lei ritrova la “vita principale”, in cui la sostanza che di solito proteggiamo dallo sguardo del mondo, emerge solo grazie ad un quotidiano in cui l’apparenza è negata. Chandra ci insegna che questo senso di appartenenza alla natura dell’universo, segue il moto di un soffio umanizzato, raccontando la calma di uno spirito vivo: il suo. Perché così come il vento, la calma non arriva mai a noi compiendo due volte lo stesso percorso, ma che come una primavera eterna, ritorna immancabilmente a trovarci, risuonando nelle vite di chi ancora vive il presente, e di chi invece ha smesso d’essere nell’oggi.