L’emozione umana della consapevolezza non è da tutti ne tantomeno per tutti, e la possiamo rivolgere verso due categorie di soggetti: noi stessi e il mondo che naturalmente ci circonda. Il vero problema di questo stato d’animo, è che chi ne è ampiamente ricolmo viene accusato di boria e superiorità, mentre chi è in stato deficitario si sente rimproverato per mancanza di fiducia in se stesso. In buona sostanza devi stare attento a dosarla con giudizio, altrimenti verrai sempre criticato o per eccesso o per difetto. Ricordarsi del proprio potenziale nella sfera ordinaria del presente ti regala quella sorta di aura mistica dorata, manco fossi Vegeta Super Saiyan, con la quale riesci a risultare anche agli occhi dei soggetti più invidiosi, irrimediabilmente affascinante. Le persone consapevoli sembra dicano sempre la cosa giusta al momento giusto, come se non sbagliassero mai, come se nostro Signore gli avesse dato un qualche super potere per risultare attraenti anche agli occhi di un comunissimo masso d’ardesia. Ammetto però di ravvisare pochissimi soggetti in grado di sfruttare la loro consapevolezza, riconoscendo i limiti che li vincolano; avere la capacità di leggersi in profondità a tal punto da accettare che ciò che essi sono dipende da ciò che essi stessi decidono di essere, anche quando si tratta di pecche caratteriali, è un atto superlativo. Perché riuscire ad individuare le pressioni che la società moderna ci addossa è di base una grande abilità, e il fatto di saperle accettare con lucidità senza che esse orientino le nostre scelte, quella è reale consapevolezza.
Questa volta ci addentreremo nel magico mondo della coscienza di sé, dove avere il controllo sulle nostre decisioni senza trascurare ciò che risiede all’infuori di noi, è il vero atto rivoluzionario (o almeno lo sarebbe per me, se solo ne fossi capace una tantum).
“La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro il tuo cuore. Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sveglia.”
Titoletto degno di nota questo, l’ho riletto un paio di volte anche io giusto per assimilarlo meglio: chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia. Ogni tanto mi stupisco in merito al come gli esseri umani, nel corso dei secoli, si siano trovati ad essere così dannatamente geniali pur non sapendo il come, e Jung ovviamente non poteva non far parte della crew. Osservare ciò che ci abita dentro, per capire come dialogare con chi sta fuori è l’unico valido rimedio verso la consapevolezza del proprio sé. Lucio Dalla in una strofa di “Piazza Grande” dà prova di estrema onestà cantando “A modo mio, quel che sono l’ho voluto io”, perché conscio di essere il prodotto delle scelte di una vita fatta di alti e bassi, ed è da questa citazione musicale che vorrei partire guardando alla consapevolezza custodita in noi stessi.
Dal libro “Ti aspetto nella mia casa a disordinare” – Gianluigi Gherzi
“Oh, come mi piacerebbe essere amato
per il nulla che io sono
per le mie tasche vuote,
per i miei nervi scoperti
per le mie risposte non esperte per il mio nessun potere,
per quel torsolo
di desiderio vorace
che stringo tra le labbra, per quel mio niente abbacinato dalla luce, per le dimenticanze
per gli errori goffi
per la mia fedeltà
a bellezze solo sognate,
per la mia fame e la mia sete
per la tovaglia sporca di osteria
su cui poso il capo,
per il mio sanguinare tutte le primavere, insieme con i fiori,
per quell’urlo lanciato in una notte
che gocciolava di stelle
per questo mio credere
e ancora credere, e ancora credere
in qualcosa che non so,
per questo mio tirare in aria le palline
a disegnare il cielo
per il mio vuoto che si spaura
per il mio passo zoppicante
per l’entusiasmo
che arriva senza motivo,
per la promessa che mi fanno le luci quando le guardo da lontano,
per la casa che non ho
per il lavoro che è un forse
per l’amore che è un Dio imprendibile amato, in quel mio balbettio,
in quella mia confusione
amato in quelle notti sole
dove tocca farsi forza
con il battito del cuore,
in quei giorni
che cerco la pietra preziosa,
ma dimentico dove l’ho nascosta, essere amato per quello che non sono che non riesce a trovare forma,
non amato per quello che so
per il certo e per il sicuro
per tutto l’accumulato
amato per il mio battito di ciglia,
per gli occhi
che sono uno squarcio blu
e portano memoria
di mare e di cielo.”
Gianluigi Gherzi è un autore nato a Milano, città in cui ancora oggi vive, interessato fin dagli albori della sua carriera al mondo delle periferie, delle classi meno abbienti e dei centri sociali giovanili. La sua vita ha sempre fluttuato tra il mondo della scrittura e quello del teatro, alla ricerca di un linguaggio che non fosse per pochi, ma per tutti, con il quale raccontare esistenza e emozioni, fatte di parole alla portata di chiunque. La poesia proposta è contenuta nel volume “Ti aspetto nella mia casa a disordinare”, opera nella quale Franco Arminio (poeta di cui forse parleremo nel prossimo articolo, spoiler), presenta una prefazione ricolma di sentimento e stima nei confronti dell’autore; “Il poeta non è un atleta della lingua, ma un servitore della vita”, e coloro che leggono Gherzi, trovano in lui un fidato compagno di viaggio. Il componimento inizia con un potente slancio di sincerità e consapevolezza, nel quale il poeta riconosce il suo non essere “tutto sto granché”, avendo tasche vuote e fragilità esposte, risposte non certe né potere alcuno. È un uomo conscio delle sue mancanze, tra dimenticanze ed errori goffi, che continua a riporre il suo credere in qualcosa che nemmeno lui conosce, e che al pari dei versi in apertura, vorrebbe solo essere amato per i suoi occhi blu, eco di un mare e di un cielo che si porta dentro.
“Non c’è presa di coscienza senza dolore.”
Mi affido ancora una volta alle sagge parole Jung per introdurre il secondo aspetto del nostro viaggio, ossia quello di una consapevolezza rivolta al mondo, dove l’obiettività dei pensieri risulta l’utile sistema di lettura, per non brancolare alla cieca nella società del tutto e subito. Se prima abbiamo osservato la consapevolezza dell’universo interiore, ora esamineremo quella del mondo esteriore, in cui sensazioni e percezioni si fondono allo scopo di darci una possibile interpretazione del reale, aldilà dalla punta del nostro naso. Nel suo rovescio della medaglia, la consapevolezza ci porta spesse volte ad un dolore viscerale, evitabile solo fuggendo dalla ricerca del valore del singolo. L’autrice che ora vi presento racconta la coscienza di qualcosa che va aldilà dell’Io e aldilà del Tu, sposta il limite nel regno dell’assurdo e ci invita a non scappare dallo spavento, perché è proprio quello stesso spavento a farci svegliare dall’indifferenza.
“Dobbiamo credere l’assurdo” – Alida Airaghi
“Dobbiamo credere l’assurdo, tentare l’impossibile.
Scegliere scandalo e follia, rendere il segno visibile. Quello che ci farà più paura
è l’idea di un silenzio
che non finisce mai.
In un’aria gelida e pura.
L’arte di non trattenere è da imparare, come quella di stare zitti e soli:
quella di ricordare i minuti buoni,
le buone parole – senza volerle possedere per sempre. L’arte di accontentarsi
di poco amore, di vivere l’assenza:
è da imparare.
Se un debole fuoco può bastare alla notte,
il silenzio deve farsi presenza.”
Poetessa classe 1953, Alida Airaghi è nata a Verona, studiando Lettere classiche presso l’università di Milano. Visse per diversi anni in Svizzera per poi spostarsi sul Garda, dove ancora oggi risiede. La sua prima raccolta di poesia risale al 1984, mentre in anni più recenti si ricordano il volume “Omaggi” edito da Einaudi nel 2017 e “Consacrazione dell’istante” del 2022 con AnimaMundi. Nella poesia Alida invita il lettore a ricercare la coscienza del mondo non attraverso i consueti canali di ricerca, ma nelle profondità dell’assurdo, in ciò che appare irrealizzabile, fuggendo dall’ordinario per rifugiarsi in scandalo e follia. Trovare la consapevolezza oltre i limiti del concesso, eccedere nell’eccesso perché bisogna anche conoscere gli estremi delle cose, se le si vuole sperimentare davvero. All’infuori di noi siamo costretti a relazionarci con realtà imperfette, che ci fanno paura, un po’ come facciamo con silenzio, solitudine e assenza. Se si è in grado di ricordare i momenti belli, i minuti buoni di questa vita, non dovremo avere paura dei momenti di vuoto a perdere, perché seppur non siano state dette nel tempo dell’oggi, le parole più vere saranno custodite in noi per sempre.
Qui il segreto di Pulcinella è che ci saranno sempre situazioni in cui la sofferenza offuscherà la nostra luce: siamo universi interiori di infinita portata, nei quali coesistono da buoni vicini di casa galassie e buchi neri, e la consapevolezza è lo strumento che abbiamo a disposizione, per non lasciare che essi assorbano le miriadi di stelle che ci abitano dentro. Dicono che fuori dalla paura ci sia un sole bellissimo, in vero non so se sia così, ma credo abbia ragione l’autrice quando dice che “se un debole fuoco può bastare alla notte”, la nostra consapevolezza può illuminarci ogni qualvolta avremo bisogno di luce.